disagio

Un ventunenne romano si è suicidato pochi giorni fa, gettandosi dall’undicesimo piano di un edificio in via Casilina, denunciando nel suo ultimo scritto il clima di “omofobia” che lo ha condotto al gesto disperato in quanto gay. Non è la prima volta che nella capitale si verificano episodi di disagio, legato al proprio orientamento sessuale.

La tragedia ha rinfocolato le polemiche nell’ambito del serissimo dibattito sulla considerazione delle persone con tendenze omosessuali nel nostro Paese e nel nostro ordinamento giuridico. La prima indispensabile condizione per affrontare il discorso – che si fa a volte spinoso nelle sue non banali articolazioni etiche, sociali e giuridiche – è comprendere l’entità del problema per rimediarne una soluzione concreta; la condizione consequenziale è il chiaro abbandono di logiche di demagogica strumentalizzazione: sopravvive la deprecabile tendenza di quelli che, affetti dalla smania di guardare alla società per categorici (e spesso ideologici) compartimenti, si affrettano ad “appropriarsi” anche dei più tristi fatti di cronaca pur di guadagnare “punti” alle proprie prerogative, spesso politiche – fondate o meno che siano.

Ci si riferisce allo sciame di associazioni e comitati per la propaganda dei “diritti civili” delle persone con orientamenti omosessuali (sulla cui effettiva rappresentatività sarebbe da discutere con precisione) che, alla notizia, si è alzato in volo rappresentando ad una voce l’esigenza improrogabile dell’ormai nota legge anti-omofobia, che attende l’esame del Senato dopo una prima e assai discussa approvazione alla Camera.

Questa legge introdurrebbe nell’ordinamento italiano una specifica aggravante per quegli atti, in sé ovviamente già puniti, di diffusione della o incitamento alla discriminazione quando motivati da (indefiniti) sentimenti di “omofobia” e “transfobia”. La previsione normativa generale riguarda la tutela delle persone contro materiali attività discriminatorie manifestamente lesive della loro dignità personale, ma ciò, evidentemente, in tutti i contesti in cui tali comportamenti possano effettivamente ricadere entro i netti confini presidiati dal diritto penale. E’ noto il fatto che esistano e siano anzi maggioritarie forme di esclusione o incomprensione sociale o familiare penalmente del tutto irrilevanti, ma non per questo moralmente e socialmente meno significative: ed è proprio in questo secondo profilo che, a ben vedere, ricadono i fatti di cronaca di cui si tratta.

Abbandonare la demagogia significa quindi riconoscere che una legge “contro l’omofobia” non avrebbe avuto comunque nulla a che vedere con le tragiche dinamiche che hanno portato a così infausti esiti. Dinamiche che rivelano un’insicurezza esistenziale già a livello familiare e che sarebbe illusorio, certamente riduttivo e inutile, degradare a mere questioni di sanzione penale. Ciò che conduce a questi atti disperati (incomprensioni, ambiguità, timori, silenzi, sguardi, voci..) si muove, fluido, nello spazio del penalmente irrilevante e, piaccia o no, può essere contrastato solamente con un rinnovato slancio di contenuto prettamente ed autenticamente morale, che pretende innanzitutto l’abbandono delle ideologiche prese di posizione in tema di diritti civili, che non c’entrano nulla e servono solo ad esasperare il clima sociale, nonché, spesso, a creare “mostri” e “colpevoli morali” di queste sciagure.

Una triste prova è data dalle parole lasciate dal giovane suicida, e strumentalizzate poi dalle associazioni. Il ragazzo ha scritto infatti che “l’Italia è un paese libero, ma esiste l’omofobia e chi ha questi atteggiamenti deve fare i conti con la propria coscienza”. Quest’espressione non dice quel che altri vogliono che dica, ma nel senso che dice molto di più. E’ pacifico dover intendere per “omofobia” tutti quegli “atteggiamenti” che il giovane ha incontrato, subendoli, sulla sua strada (sulla cui consapevolezza è lecito dubitare, dal momento che gli stessi genitori del ragazzo si sono dichiarati completamente all’oscuro degli orientamenti sessuali del figlio e, dunque, delle sue angosce). Ma è anche estremamente sintomatico che la responsabilità per quegli atteggiamenti venga da lui ricondotta espressamente ad una questione di coscienza, evidentemente l’unico tribunale davanti al quale possono trovare la loro giusta ammenda.

Ed è allora sulla coscienza personale e sociale delle persone che, chi di dovere ed in primis le famiglie, devono operare una sapiente educazione al valore primario e indissolubile della dignità umana. Pretendere che una legge possa magicamente imporre dall’alto una nuova abitudine nazionale, correndo per altro il concretissimo rischio di travolgere, nella sua foga ideologica, anche manifestazioni di pensiero e opinione del tutto lecite(come esprimere la propria posizione, ad esempio, sull’estensione del matrimonio a coppie omosessuali o permettere a queste l’adozione di minori – si rammenti il “caso Barilla”), pretendere una reazione così abnorme, dunque, significherebbe aggravare di molto il problema cui si vorrebbe rimediare. Significherebbe ignorarlo, sacrificando sotto i colpi del “mio diritto” il valore della diversità, “mio dovere”.

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